“Se non ci convertivamo, ci davano fuoco. Così siamo sopravvissute a Boko Haram”...




In un diario il racconto di alcune delle 276 ragazze tenute prigioniere dai miliziani jihadisti

80 liberate Dopo una lunga trattativa tra il governo e i miliziani, 80 delle 276 «Chibok girls» sono state liberate a maggio e ora si trovano in un «centro di recupero» nella capitale Abuja


CITTÀ DEL CAPO
«Se non vi convertite all’Islam, vi cospargiamo di benzina e vi diamo fuoco». Si apre così il diario scritto da Naomi Adamu e Sarah Samuel, due delle 276 liceali rapite dal gruppo jihadista Boko Haram nel villaggio di Chibok nel Nord-est della Nigeria nell’aprile del 2014. Naomi, dopo una lunga trattativa tra il Governo ed i miliziani, è stata liberata lo scorso maggio insieme ad altre 80 delle «Chibok girls» e si trova ora in un «centro di recupero» nella capitale Abuja. 

Un luogo segreto dove sono sottoposte a cure psicologiche e a programmi di de-radicalizzazione, dato che alcune di loro sono state indottrinate dal gruppo terrorista. Al contrario Sarah, privata per giorni di acqua e cibo, per evitare di morire di fame e sete ha accettato di sposare uno dei guerriglieri e si crede sia ancora ostaggio nella foresta di Sambisa, roccaforte di Boko Haram.  

«Eravamo in preda al panico, ma non volevamo convertirci, ci hanno buttato un liquido addosso, poi sono scoppiati a ridere e abbiamo capito che non era benzina ed eravamo salve», scrivono Naomi e Sarah, nelle pagine del diario ottenuto in esclusiva dalla Thomson Reuters Foundation. Un racconto quotidiano, realizzato sui quaderni in cui avrebbero dovuto trascrivere i testi coranici e che nascondevano sotto il velo nero oppure interravano per evitare che i propri carcerieri lo trovassero. «Un giorno, cinque di noi sono scappate, ma i militanti le hanno riprese, legate, e dopo aver scavato una fossa mi hanno dato una sciabola e ordinato di tagliar loro la testa, altrimenti l’avrebbero fatto a me – scrive Naomi nel suo diario –. Li ho supplicati in ginocchio e le hanno graziate».  

Dalle pagine scritte in parte in inglese in parte in hausa, lingua simile all’arabo parlata nel Nord-est della Nigeria, emerge la durezza della prigionia: abusi sessuali, lavori forzati, addestramento militare ed indottrinamento religioso. Di notte, il pensiero fisso delle liceali era la fuga, sapendo di rischiare la vita. «Dopo vari tentativi alcune ragazze sono riuscite a scappare; arrivate in un negozio hanno chiesto aiuto presentandosi come le ragazze di Chibok, ma il proprietario, dopo averle tranquillizzate, a tradimento le ha riportate nella foresta spiegando loro che sono di proprietà di Abubhakar Shekau (il leader sanguinario di Boko Haram, ndr). I miliziani per punizione le hanno picchiate quasi a morte» - racconta Naomi nel diario. «Per noi è stato uno strumento di conforto, di speranza, l’unico momento di svago, quando una di noi era stanca, passavamo carta e penna ad un’altra che continuava a scrivere», ha detto Naomi dal centro di riabilitazione.  

E pensare che il rapimento delle «Chibok girls», trasformatosi nell’evento che, grazie alla mobilitazione dell-ex first lady Michelle Obama con l’hashtag #bringbackourgirls, ha messo sotto i riflettori Boko Haram, non era affatto programmato. Dalle pagine raccolte dalla Thomson Reuters Foundation emerge, infatti, che i guerriglieri erano alla ricerca di materiale per la costruzione dei loro accampamenti militari. Imbattutisi nelle ragazze dopo una serrata discussione avrebbero deciso di rapirle e di lasciar decidere le loro sorti al leader del gruppo jihadista Shekau. 

Oltre alle 82 liceali liberate a maggio dopo uno scambio con alcuni dei miliziani arrestati negli anni passati, altre 21 ragazze erano state rilasciate ad ottobre 2016. All’appello mancherebbero ancora 113 ragazze, le cui sorti sono ancora un mistero. A cui va aggiunta la testimonianza di Zannah Mustapha, avvocato e mediatore nelle trattative tra governo e guerriglieri. «Alcune di loro sarebbero potute essere liberate, ma hanno deciso di rimanere con i jihadisti, forse perché sono state indottrinate, oppure per la vergogna di tornare a casa», ha detto Mustapha alla Thomson Reuters Foundation.  

Una linea di demarcazione sempre più difficile da tracciare, resa ancora più vaga dalla recente denuncia dei vertici dell’esercito nigeriano, secondo cui alcuni genitori avrebbero donato le proprie figlie al gruppo terrorista come contributo alla causa per cui nacque Boko Haram: redistribuire le ricchezze nelle regioni povere Nord-orientali. Probabilmente ignari della deriva presa dal gruppo jihadista con l’arrivo al potere di Shekau, hanno di fatto condannato a morte le proprie figlie, dato che più di cento sono state usate come bombe umane nei numerosi attentati nei mercati e nei villaggi.  

Il Presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari ha più volte ripetuto di aver «tecnicamente sconfitto» Boko Haram. Ma i miliziani, soprattutto nelle ultime settimane, dopo la scissione in due fazioni del gruppo jihadista, una guidata dal più «clemente» Abu Musab Al-Barnawi, hanno ripreso a terrorizzare i villaggi del Nord-est del Paese entrando anche nei campi di sfollati interni dove sono rifugiate due milioni di persone. Dal 2009 ad oggi il numero delle vittime ha superato quota 25mila...

(La Stampa Mondo)


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