Siria: il dramma di Shams “Ho sentito un affondo, il suo sudore, la sua saliva”...

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Al campo profughi è scesa la notte. Non ci sono luci da spegnere, ma solo fiamme di candele su cui soffiare. Una voce femminile chiede di poter entrare nella tenda dove sono ospitata. E’ Em Aiyed, una delle donne che avevo intervistato nel pomeriggio. Mi chiede se voglio seguirla, perché vuole raccontarmi una cosa che aveva dimenticato. Trasgredisco alle raccomandazioni e seguendo la debole luce della sua torcia, vado con lei.
“Grazie di essere venuta. In realtà non ho nulla da aggiungere a ciò che ti ho raccontato, volevo solo che ascoltassi quello che ti deve dire mia figlia. Le ho parlato di te e ha detto che accetta di parlarti”. Rimango un po’ sconcertata. Lei e le sue vicine di tenda mi avevano detto che quella ragazza non parlava, che non era normale. “Si è isolata dal mondo per proteggere quel poco che le resta di se stessa…”. La chiamerò Shams, ma è un nome di fantasia. Le ho promesso l’assoluto anonimato. Le ho promesso di raccontare la sua storia in italiano, ma di non farne parola con nessuno al campo e nelle altre città siriane che avrei visitato.
Mi parla nel buio; anche la candela sembra rispettare quel bisogno di riservatezza e la sua fiamma è debole. Non posso non notare i suoi occhi verdi, che si inondano continuamente di lacrime. “Nel 2011 avevo 17 anni, ero arus – fidanzata - e mi sarei dovuta sposare terminate le scuole superiori. Mia madre ti ha già raccontato che il maggiore dei miei fratelli, con sua moglie e i suoi tre figli, è rimasto ucciso in un agguato: hanno fermato la loro auto vicino a un posto di blocco e li hanno sterminati senza un perché. Così mio fratello minore, che era un militare del reparto aviazione, ha defezionato e si è unito al neonato esercito libero. Una mattina sono venuti a cercarlo. A casa c’eravamo io e i miei genitori. Mio padre ha aperto e un commando ha chiesto di mio fratello. “Non so dove sia andato, non lo sentiamo da settimane”, ripeteva, così hanno iniziato a picchiarlo e insultarlo. Poi lo hanno legato ad una sedia in mutande, mettendolo in mezzo al cortile di casa, continuando a picchiarlo; si sono messi a fumare e a spegnere le sigarette sul suo viso affinché parlasse, ma mio padre continuava a ripetere di non sapere nulla, dicendo che gli avevano già ucciso un figlio, una nuora e tre nipoti e che dovevano lasciarci in pace, che siamo gente semplice. A quel punto si sono irritati ancora di più. Poi uno si è tolto la cintura e ha cominciato a frustarlo, Prima sulla schiena, poi anche davanti. Io e mia madre ci eravamo nascoste in camera coprendoci subito il capo e guardavamo tutto da dietro una tenda. Papà non urlava, emetteva mugugni terribili. Tutto questo è durato alcune ore. A un certo punto il loro capo ha ordinato che andassero a cercare le donne, dicendo che” i cani parlano solo se gli stupri la moglie”. Allora mamma mi ha nascosto nell’armadio; hanno fatto irruzione nella stanza e l’hanno portata via, ma hanno trovato anche me. Prima hanno portato giù lei, buttandola a terra. Il loro capo l’ha presa a calci dicendo che voleva carne più giovane, così hanno portato giù anche me. Mi hanno strappato il velo e allora il loro comandante ha ordinato loro di uscire, di aspettarlo fuori. Mi ha buttata a terra e io mi sentivo paralizzata. Prima ha colpito con un calcio mio padre, ancora legato alla sedia, che lo ha implorato di lasciarmi stare, poi ha tirato un altro calcio a mia madre, che però era già svenuta. Si è buttato sopra di me. Sentivo di soffocare, aveva un odore terribile. Mi ha strappato i vestiti e io cercavo di coprirmi; mi ha presa a schiaffi intimandomi di stare zitta. Mi ha morso, era una bestia, un animale. Non sentivo più nessuna voce… ho provato come un taglio, un affondo, sentivo il suo sudore, la sua saliva, il suo peso. Non riuscivo più nemmeno a urlare, piangevo. Le sue dita e i suoi denti affondavano nella mia carne e io cercavo di sottrarmi alla sua trappola, ma mi sentivo immobile. Sentivo il suo alito, la sua barba che mi graffiava, il suo peso che mi schiacciava. Quando si è alzato non avevo più la forza di alzare nemmeno un braccio. Mi ha dato un calcio tra le gambe dicendo che mio padre aveva avuto ciò che si meritava e che dovevo salutargli mio fratello. Poi sono svenuta, non ricordo chi ci ha trovato. Quando mi sono svegliata avevo la febbre e sanguinavo. Mamma aveva il viso gonfio, aveva dolori. Papà, mi hanno detto, era morto d’infarto su quella sedia. Mi sento sporca, mi odio. Ho detto a mia madre che vorrei suicidarmi; mi ha detto che è haram (peccato). Le ho detto che è haram anche quello che ho subito. Mio padre è morto dal dolore. Mio fratello non lo vediamo da due anni. Io e mia madre siamo in questa tenda. Anche questo è haram“.
Shams non riesce  più a smettere di piangere. Nemmeno io. Oggi ho mantenuto la promessa che le ho fatto. Per lei, per tutte le Shams siriane che si nascondono nel silenzio per soffocare il loro dolore, la loro paura. Per tutte le Shams che nei paesi di guerra subiscono violenze dell’anima e del corpo.
NB: la foto è un’opera dell’artista Wissam Al Jazairy e non è legata a questa drammatica vicenda.

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