Cinque domande a Obama sull’attacco in Siria Perché attaccare? E perché farlo ora? Cinque domande al presidente Usa, e cinque possibili risposte...

Barack Obama, insignito del Premio Nobel per la Pace 2009 prima ancora di sapere dove si trovassero tutti i bagni della Casa Bianca, si trova in una posizione per niente familiare. Dopo essere stato eletto sull’onda del disprezzo per le scelte di George W. Bush sull’Iraq, si trova ora dal lato sbagliato dell’opinione pubblica. Solo il 25 per cento degli americani si è espresso a favore di un intervento degli Stati Uniti in Siria.
Nonostante questo, il Presidente - riferiscono i suoi assistenti - non ha intenzione di rilasciare alcun grande discorso sulla Siria prima di passare all’azione militare.
Nel suo intervento sulla Pbs del 28 agosto, il Presidente americano ha dichiarato di non aver ancora preso alcuna decisione, ma ha affermato anche che qualsisasi potenziale attacco sarebbe finalizzato a inviare «un segnale piuttosto forte» al presidente siriano Bashar al-Assad per aver utilizzato armi chimiche.
Con questo quadro in testa, ecco cinque domande per Barack Obama, nel caso in cui decidesse di attaccare la Siria
1. Qual è lo scopo dell’attacco in Siria?
I funzionari dell’amministrazione hanno spiegato ai giornalisti che l’obiettivo di Obama è punire Assad, non di rovesciare la situazione a favore di una coalizione di ribelli piena di islamisti anti Usa. E nemmeno fermare il massacro di Assad con pistole, missili, bombe o qualsiasi cosa che non rientri nella categoria «armi di distruzione di massa da linea rossa»
Ma gli esperti dicono che queste sono solo chiacchiere confuse. E lo stesso Obama è apparso in difficoltà quando la domanda gli è stata fatta per la prima volta dalla giornalista Judy Woodruff della Pbs lo scorso mercoledì 28 agosto, soprattutto quando la corrispondente lo ha incalzato chiedendo: «Presidente, con tutto il rispetto, ma cosa ottiene in questo modo? Se non riuscirà a danneggiare a sufficienza il regime di Assad, che cosa avrà ottenuto?»
Obama le ha risposto con le stesse motivazioni che i funzionari hanno dato per giorni: dissuasione, punizione e il richiamo alle «norme» internazionali contro l’uso di armi di distruzione di massa. Aggiungendo un’altra ragione: il potenziale rischio per gli Usa: «Stiamo parlando di armi chimiche in un Paese che ha la più ampia riserva di armi chimiche al mondo, il cui controllo, nel tempo, potrebbe erodersi... sono armi chimiche dagli effetti devastanti che potrebbero essere rivolte verso di noi», ha detto Obama.
2. Perché attaccare ora?
Si tratta solo di incassare il retorico assegno che Obama ha scritto il 20 agosto del 2012, quando ha notoriamente dichiarato «a red line for us is we start seeing a whole bunch of chemical weapons moving around or being utilized», la linea rossa scatta quando vediamo circolare o essere utilizzata una gran quantità di armi chimiche.
Lo scorso mercoledì 28 agosto, nella sua intervista alla Pbs, ha parlato di un eventuale attacco come il punto di incontro di imperativi morali e interesse nazionale. «C’è una ragione per cui esiste una legge internazionale contro le armi chimiche», ha concluso, riassumendo le opinioni di Susan Rice, portavoce della National security americana, e Samantha Power, ambasciatrice Onu, entrambe attiviste anti-genocidio.
Ma c’è una terza ragione per un attacco: il prestigio nazionale e presidenziale. Obama si è sentito davvero punto sul vivo quando il senatore John McCain ha fatto una battuta sulla “scomparsa” della linea rossa di Obama in occasione di un precedente presunto attacco chimico in Siria, e lo stesso Obama è profondamente conscio della percezione che il mondo ha degli Usa, come di una superpotenza che sta perdendo il suo potere di influenzare gli eventi nella regione, una realtà evidenziata dalla decisione dell’esercito egiziano di rovesciare il governo dei Fratelli Musulmani nonostante l’opposizione di Obama.
3. Cosa accadrà se Siria, Iran o Hezbollah attaccano Israele?
Benvenuti nel grande incubo di Obama: un atto di controllata rappresaglia che si trasformi in una incontrollata conflagrazione regionale.
L’Iran ha dichiarato che nel caso in cui gli Usa attaccassero, potrebbe rivalersi su Israele. L’avvertimento siriano di mettere Obama con le spalle al muro è stato preso da Israele come motivo valido per arruolare le riserve, togliere la polvere alle maschere anti gas, e spiegare il suo sistema di difesa missilistica, l’Iron Dome. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto venerdì 28 agosto che le Forze di difesa israeliane sono pronte a difendersi da qualsiasi minaccia e «di rispondere con forza» se necessario.   

4 Perché tutta questa fuga di notizie?
Nella maggior parte dei conflitti, i paesi proteggono i loro piani militari con il segreto.
Ma la crisi della Siria sembra l’esatto opposto - con alcune agenzie di stampa che riportano di navi della Marina che si sono schierate nella parte orientale del Mediterraneo discutendo apertamente - e citando fonti governative - sulla possibilità di un ordine di attacco giovedì 30 agosto.
Non è del tutto chiaro chi fa trapelare tutti questi dettagli o perché, ma l’amministrazione ha un sacco di ragioni per la fuga di notizie.
Fonti della difesa dicono che il team di Obama vuole mantenere le aspettative basse e evitare l’argomento secondo cui il presidente stia iniziando una terza guerra mondiale trascinando gli Stati Uniti nel pantano. Così i funzionari stanno facendo chiarezza sul fatto che non verranno coinvolte truppe di terra o anche piloti con aerei da guerra sopra la Siria, ma solo le armi più sicure e più precise dell’arsenale americano: i missili Tomahawk.
Attuando il consueto black-out sui dettagli operativi l’amministrazione sta inoltre cercando di mettere a tacere le reazioni dei paesi al di fuori della Siria, che sarebbero più propensi a rispondere. Una grossa preoccupazione per la casa Bianca che potrebbe avere una ricaduta immediata sul rapporto tra gli Usa e il nuovo Iran, del presidente più moderato Hassan Rouhani, che ha manifestato il desiderio di riaprire la discussione sul programma nucleare del suo paese in cambio di una diminuzione delle sanzioni occidentali economicamente disastrose. Un’altra preoccupazione riguarda il fatto che un attacco danneggerebbe i già tesi rapporti Usa-Russia. 

5. Obama ha bisogno di consultare il Congresso?
La Casa Bianca non ha si è ancora espressa in merito, ma Obama si sta comunque preparando.
In base al War Power Act del 1973, a Obama è richiesto di consultare il Congresso 48 ore dopo aver coinvolto l’esercito. La legge vieta al Presidente di coinvolgere le truppe unilateralmente per più di 90 giorni senza la loro approvazione. Ma nella pratica, i presidenti americani tendono ad agire unilateralmente, dopo le consultazioni con i leader del Congresso – e alcuni, come Bill Clinton durante l’attacco in Kosovo del 1999, hanno violato questo regolamento con una certa impunità.
Obama – che ha detto di appoggiare le notifiche congressuali durante la campagna del 2008 – ha seguito queste regole due anni fa quando ha schierato la divisione aerea contro la Libia. Ora sta pianificando dei briefing con i leader del Congresso a partire da giovedì 30 agosto, sia di persona sia in teleconferenza, per cercare di domare una corrente crescente di scetticismo.
Lo scorso mercoledì, più di 100 giuristi - la maggior parte dei quali Repubblicani - hanno firmato una lettera per chiedere maggiori informazioni su un possibile attacco. Lo speaker John Boehner ha scritto una lettera non minacciosa ma decisa a Obama chiedendo una spiegazione completa da parte della Casa Bianca «su come la potenziale azione militare difenderà gli interessi nazionali americani, preserverà la credibilità americana, dissuaderà dal futuro uso di armi chimiche e in che modo influenzerà la politica e strategia internazionale americana».
(LINKIESTA)


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